Leggendo la home de La 27esima ora, oggi ho trovato tra le selezioni della storia del blog, questo mio articolo di qualche anno fa, mi fa piacere pubblicarlo anche su Appassionate, perchè tutte le storie, ma certe in modo particolare, meritano di essere raccontante più e più volte.
Di Agnes b. io conoscevo solo la sua linea di moda, bei vestiti, lineari e semplici, bianchi e neri, che non invecchiano mai. Un’icona della moda francese, conosciuta in tutto il mondo. Settantatre anni e ancora lunghissimi capelli bianchi, legati da due mollettine ai lati. Una bambina nel corpo di donna.
Agnes b. è oggi, anche la realizzatrice di un film “Je m’appelle hmmm”, suo primo lavoro cinematografico, forte e delicato, un cazzotto allo stomaco, che senza mai nominarlo, racconta l’incesto. L’ho visto a Roma, in una proiezione privata a Villa Medici, perché il film non ha ancora una distribuzione. Quando si sono accese le luci c’era già più di qualcuno in fila ad attenderla, allora io ho aspettato, per parlarle con calma. Ma sebbene ci fossimo appartate e per alcuni minuti fossimo riuscite a parlare intimamente, in tanti tornavano a reclamarla. In quel poco tempo una frase mi aveva colpita e tenuta appesa,
“Non è la mia storia, ma conosco bene quella situazione. Non importa quanto tempo dopo, ma queste vicende vanno raccontate.”
Poi qualcuno l’ha chiamata e dispiaciuta per l’interruzione le ho proposto di continuare la nostra intervista a Parigi. Lei contenta ha accettato: la settimana successiva avremmo ripreso quel racconto.
Il mio viaggio a Parigi era previsto da tempo, non mi posso permettere certe improvvisate. Dovevo andare su per un lavoro che mi aveva molto impegnato negli ultimi due anni, e che avrebbe avuto una conclusione reale e metaforica proprio in quei giorni. Ero entusiasta di stare per raggiungere il traguardo, e sentivo che la coincidenza di quell’intervista avrebbe avuto senso anche per il mio progetto.
“Credo che vendere la propria immagine non sia un vero lavoro, io lo dico a chi vuole fare la modella, nella moda noi valutiamo sempre volti nuovi, eccezionali, assurdi. Per questo andiamo a cercarli in capo al mondo, ma quella bellezza non ha legami con la realtà. Non bisogna esitare invece a FARE, le donne in special modo. Dobbiamo fare in maniera concreata, essere aperte e disponibili, quelle che si muovono, vengono notate, e finiscono per fare le cose in cui credono.”
Così mi dice durante la nostra intervista.
Ero arrivata da dieci minuti prima a casa Agnes b., e mi aveva chiesto di aspettarla nella sua camera da letto, mentre di là, nel grande salone vista Tuileries, modelle filiformi, fotografi, assistenti, parrucchieri e truccatori, aspettavano che lei decidesse lo scatto successivo: inquadratura, soggetto, decoro. Io nella sua camera bianchissima, indecisa se sedermi sul bordo del letto o su una delle due sedie messe là, opto per restare in piedi. Dalle pareti mi guardavano foto di Picasso, Andy Warhol, Basquiat (quelli veri) e io mi sono chiesta se non fosse stata lei a scattare quelle foto. Avrebbe potuto benissimo essere così. Ci sono persone destinate ad un quarto d’ora di celebrità nella vita, altre che saranno celebri per sempre. Agnes b. è sicuramente una di queste. Star della moda, mecenate e collezionista dell’arte, sostenitrice dell’ecologia, oggi regista. Mentre l’aspettavo mi sono chiesta come avrei raccontato al meglio la sua storia, anzi, cosa ero veramente venuta ad ascoltare?
Finalmente arriva, è sorridente, ci sediamo sulle due sedie colorate e mi dice che abbiamo il tempo di uno scatto, circa quindici minuti.
“Dai vestiti al film, mi sembrano modi diversi ma uguali tentativi di raccontare storie, mi sbaglio?”
“Tutta la mia vita è una fiction, ogni mattina mi sento di poter scrivere un episodio. Ogni mia creazione è una storia, dai vestiti che immagino debbano essere perenni e che possono essere aggiornati, alle foto, e al film. Ho studiato all’ecole du Louvre, e ho sempre trovato nelle immagini, storie affascinanti da leggere. I vestiti sono l’abito che indossiamo per raccontare la nostra storia, lo scegliamo ogni mattina e andiamo nel mondo con addosso quello che abbiamo da raccontare. I vestiti hanno un valore politico, per questo ne rivendico la perennità.”
Mi piace questa frase, anti consumismo perfetto, penso, mentre lei continua “Amo la perennità dei vestiti, sarà che da bambina mi vestivo con gli abiti che mi passava mia sorella maggiore. Ho avuto il mio primo cappotto a quindici anni, e quando sono partita per l’Inghilterra tutto il mio armadio è entrato in una piccola valigia. I vestiti devono essere affidabili, funzionali, duraturi, ci sono molte cose importanti di cui occuparsi nella vita, ai vestiti bisogna pensarci poco.” Mentre parla avvicina una sacca appoggiata ai piedi del letto e tira fuori un maglioncino “Vedi, questo l’ho fatto dieci anni fa, ma l’ho riproposto quest’anno, perché funziona ancora, è ancora bello. E quest’altro”, dice mentre cerca in fondo alla sacca, “è un vestito su cui ho stampato una mia foto del porto di Copenaghen. I vestiti sono la storia che si sovrappone negli anni, l’intimità che si appoggia sulla realtà.”
Il vento gonfia le tende alle finestre, io mi sento inibita davanti a questa signora, così potente e delicata al contempo. Decido che devo investire la mia intimità se voglio, in questi quindici minuti, toccare la sua. “Io racconto storie di donne che con il loro lavoro vogliono cambiare la società, mia madre mi ha detto, prima di partire, non ti dimenticare di raccontare anche le storie di donne semplici, contano anche loro sai, sono tante anche se non le vede nessuno.”
Lei mi guarda comprensiva,
“Ho sempre voluto cambiare la realtà, anche troppo forse, con le storie che inventavo fin da ragazzina per spiegare o giustificare fatti che non comprendevo. Sono cresciuta con la sindrome di essere perduta nel bosco e di rimanere sola, e questa paura si è sviluppata con gli anni in una profonda sensibilità. Io sento le storie che le persone vogliono raccontare di sé, per questo voglio che i vestiti siano poco invadenti, che lascino ad ognuno di poter essere se stesso. E poi diciamolo, per troppi anni abbiamo sottostimato il pubblico, immaginando non sapesse cosa volere, mentre dobbiamo lasciargli spazio perche si comprenda. Ha ragione tua madre, le storie semplici sono importanti, perché sono reali e vere. Per questo dico ad ognuno di fare quello che ha in mente, cominciando al più presto, impegnandosi molto. Io per fortuna non conosco la fatica, ho sempre lavorato molto, ma mi bastano poche ore di sonno per riprendere energie.”
“Dalle storie sui vestiti alla storia del film, qual è la strada?” Un po’ ci pensa, ma poi racconta senza inibizioni
“E’ una storia che volevo raccontare da tanti anni. Sono spesso frequenti nelle famiglie confusioni di questo genere. Le bambine pre adolescenti sono magnetiche, per la loro bellezza, e per il loro incarnare la trasformazione, non più infantili e non ancora donne. Non è la mia storia, io avevo un ottimo rapporto con mio padre, ma tra i quattordici e i sedici anni mi sono state dedicate troppe attenzioni da un adulto, quindi conosco bene come ci si sente, impotenti e allo stesso tempo responsabili. Per questo a diciassette anni mi sono sposata, avevo fretta di diventare grande, e poi ho avuto i miei primi due figli, gemelli. Due anni dopo eravamo separati, ma gli ho sempre voluto bene, è lui la B di Agnes b. ma è stato comunque molto difficile, il divorzio non era ben visto negli anni 60, nessuno mi ha aiutata.”
La guardo e so che il tempo è quasi finito, ha un’espressione sul viso di una bambina che si è fatta male cadendo e che ha imparato a non piangere. Vorrei consolarla, ma dura un attimo perché il tempo a nostra disposizione è finito, il rutilante mondo della moda la richiama in salone. Già in piedi mentre io raccolgo le mie cose, mi dice ancora.
“Tutte le storie vanno raccontate, e anche queste, perché se non le racconti restano là, e non servono a nessuno. E invece bisogna dirlo che i bambini vanno lasciati in pace, e bisogna dire ai bambini che loro non hanno nessuna colpa.”
La seguo in salotto dove si rimette instancabile al lavoro, io le scatto qualche foto mentre con la coda dell’occhio continua a guardarmi e a sorridermi.
Articolo pubblicato anche su Corriere della sera – La 27esima ora
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