È possibile rischiare la vita per giocare a pallone? Esistono ancora paesi dove le donne sfidano la legge. Anche per cose semplici come giocare a calcio e per allenare, per avere il diritto di assistere a una partita o per commentare il calcio il tv.
“Abbiamo molte bocche da sfamare. In caso di tempesta, se la nave sta affondando, si cominciano a gettare in mare i pesi inutili”. Nel 2016, il presidente del Malavan Football Club della città di Bandar Azali a nord dell’Iran, giustificava così la decisione di interrompere all’improvviso le attività della squadra di calcio femminile in un momento di difficoltà economiche per la società. Maryam Irandoost, allora capitano del team che è tornata a guidare due anni più tardi quando la nuova presidenza decise di ricostituire la squadra, dichiarò in un’intervista ad Al Jazeera che per lei e le sue compagne quelle parole, unite all’impossibilità di giocare, la fecero sentire come “prigioniera circondata da muri concreti”.
Nella Repubblica Islamica dell’Iran, il calcio a 11 femminile è stato riconosciuto solo negli ultimi anni. Katayoun Khosrowyar, è una giovane donna con il pallino del calcio
– Da bambina, il calcio era l’unico sport che potesse contenere la mia energia instancabile. Il calcio era la mia Barbie –
nata e cresciuta negli Stati Uniti da genitori iraniani. Quando nel 2005 la sua famiglia decise di rimpatriare, all’inizio per lei l’unica alternativa fu sperimentare una forma locale di calcio a 5 – footsal, termine usato in inglese anche nella lingua farsi – giocato al chiuso da donne con il capo coperto dal tradizionale hijab.
Anni dopo, Katayoun fu chiamata a far parte della prima squadra nazionale di calcio femminile che si qualificò ai Giochi Olimpici del 2012 senza potervi partecipare: a 5 minuti dall’inizio della prima partita, un funzionario della FIFA entrò nello spogliatoio e comunicò alle giocatrici il divieto imposto dalla Federazione di giocare indossando l’hijab. La Nazionale tornò a Teheran con il cuore pesante; molte smisero di giocare e ripresero ad occuparsi della famiglia a tempo pieno; altre, capeggiate da Katayoun, si impegnarono in una grande impresa: convincere la FIFA a eliminare dal suo regolamento la norma anti-capo coperto attraverso la campagna di sensibilizzazione Let us play che si estese anche ad altri paesi colpiti dal divieto e che si concluse sorprendentemente a buon fine. Nel 2013, Katayoun smise di giocare come calciatrice professionista e divenne la prima donna in Medio Oriente a ottenere la licenza A come allenatore FIFA.
Una passione viscerale per il calcio e la determinazione a conquistarsi uno spazio dove farla fluire accomunano Katayoun e un’altra donna da primato: la ventisettenne sudanese Salma Al Majid, prima allenatrice del club maschile Al-Ahly nella città di Al-Gadaref, ad est di Khartoum. In Sudan, paese islamico a sud dell’Egitto, secondo i dettami della sharia, alle donne non è concesso praticare lo sport del pallone, nonostante sia popolarissimo tra gli uomini. “Sister Coach”, così è soprannominata Salma dai ragazzi della squadra, giocava a calcio già da bambina, ma in segreto; assisteva alle partite del fratello per poi sobbalzare giù dagli spalti e chiedere all’allenatore l’impossibile su regole, trucchi e stratagemmi del gioco a 11. Crescendo, per lei, l’unica possibilità di dedicarsi professionalmente al calcio era allenare.
Nonostante nel paese il calcio femminile sia tuttora un tabù, esistono due squadre che spesso si sfidano a vicenda: il team studentesco dell’università per sole donne Al-Ahfad nella capitale, e The Challenge, un club nato più di 10 anni fa autoproclamandosi squadra nazionale pur non avendo ottenuto il riconoscimento ufficiale da parte dell’Associazione Nazionale di Calcio Sudanese. Tra le challengers della prima ora, Sara Edward ha raccontato di quanto fosse difficile trovare non solo un campo dove allenarsi, ma anche i fondi per sostenere gli allenamenti
– All’inizio, alcune squadre maschili ci sottostimavano, ma il loro rispetto è cresciuto quando ci hanno visto giocare e capito di cosa eravamo capaci -.
Combattere contro pregiudizi culturali e religiosi, muoversi lungo la linea sottile del tollerato ma non riconosciuto, e, a volte, rischiare la vita pur di giocare a pallone, come è accaduto all’afghana Khalida Popal sotto il regime dei Talebani, oggi il volto simbolo della resistenza del calcio femminile in Afghanistan. Nata a Kabul nel 1987, Khalida ha imparato a giocare grazie alla madre, insegnante di educazione fisica. In un’intervista recente per il programma PRI’s The World, ha raccontato:
“Penso di aver avuto 8 o 9 anni quando ho iniziato a giocare con i miei fratelli. Erano tempi bui per il mio paese quelli, ma anche dopo la cacciata dei Talebani, avevamo tutti paura di quello che sarebbe potuto accadere. La mentalità dei Talebani è ancora ovunque. Loro credono che le donne debbano stare a casa, che a loro non sia consentito partecipare ad attività come giocare a calcio. Una volta ci divertivamo giocando a pallone, quando siamo state aggredite da un gruppo di uomini. E’ stato allora che abbiamo compreso quanto fosse difficile essere donna nella società.”
Khalida, nonostante le minacce di morte, i lanci di pietre e gli insulti ripetuti contro di lei e le sue coetanee amanti del calcio, non si è fermata: ha fondato la prima squadra nazionale di calcio femminile in Afghanistan che si allenava in segreto nei cortili della Nato a Kabul e che ha partecipato a tornei internazionali al di fuori del paese, attirando una comunità di oltre 1000 giovani giocatrici. Nel 2011, la notorietà mediatica ottenuta dal successo di questa grande impresa, l’ha costretta a scappare e a chiedere asilo politico in Danimarca l’anno successivo dopo una breve sosta in India. L’esperienza del campo profughi a contatto con tante donne sofferenti per la loro condizione, ha convinto definitivamente Khalida del potenziale dello sport, e del calcio in particolare, come strumento di cura contro la depressione e di emancipazione femminile, spingendola a fondare l’organizzazione internazionale Girl Power.
Donne che rischiano la vita per giocare a calcio e per allenare, donne a cui è negato il diritto anche solo di assistere ad una partita e donne che non possono parlare, meglio, commentare il calcio.
In Arabia Saudita, il Principe Mohammed bin Salman sembra determinato a concedere sempre più diritti civili alle donne, a cominciare dallo storico permesso di guidare giunto nel 2017.
Nel febbraio di quest’anno, la saudita Haila Al Farraj, dopo anni di gavetta spesi lavorando nell’amministrazione di radio, televisioni e organizzazioni umanitarie, è diventata la prima commentatrice di calcio donna. A marzo si è svolto un torneo di calcio femminile che ha coinvolto 16 squadre provenienti da Bahrain, Kuwait, Oman, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, ospitato per la prima volta nella storia presso la Città dello Sport di Khobar. Haila, sorella di un noto broadcaster del mondo dello sport e di un comico diventato celebre grazie ai social media, ha commentato così il suo debutto in questa occasione al quotidiano Gulf News: “Tutte le esperienze che ho accumulato negli anni, mi hanno spinto a diventare brava in quello che faccio e a migliorare le mie capacità. Sono stata fortunata ad avere il sostegno della mia famiglia, di mio marito e dei miei fratelli.” Solo due mesi prima, le donne saudite ottenevano, sempre per la prima volta, il permesso di recarsi negli stadi delle città di Riyadh, Jeddah e Damman e di assistere alle partite di calcio in aree per sole donne e bambine, pur non essendo accompagnate da familiari uomini.
Le storie dal mondo di Maryam, Katayoun, Salma, Sara, Khalida e Haila dimostrano come il calcio sia un forte strumento di empowerment femminile. In molti paesi, questo sport rappresenta la libertà, ma anche un ponte tra cultura e religione contro le discriminazioni di genere rivolte a donne e ragazze dalla comunità di appartenenza. Ogni goal è la messa in rete dell’obiettivo più importante di tutti: la conquista graduale di rispetto degli uomini verso le donne e il loro potenziale. Le vite di queste donne esemplari rivelano anche il ruolo fondamentale che spesso organizzazioni umanitarie e soggetti privati svolgono nel contribuire a rompere vecchi schemi, pregiudizi e stereotipi sostenendo donne che altrimenti non avrebbero voce.
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